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Cartellini segnatempo e fogli di presenza: non sono atti pubblici (nè i dipendenti che li usano pubblici ufficiali) ma......
La seconda sezione della Suprema Corte di Cassazione è recentemente tornata sul tema della natura giuridica dei cartellini "marcatempo" e dei fogli di presenza e sulla conseguente tipologia di reato commesso da chi compia su di essi condotte di falsificazione o comunque elusive (mancata timbratura in caso di allontanamento, omessa indicazione della mancata presenza in ufficio nei fogli, etc.).
Con sentenza del 10 settembre 2008, n. 35058 si è affermato che di regola i lavoratori dipendenti di enti pubblici che certificano il proprio orario di ingresso e di uscita dal lavoro non sono pubblici ufficiali quando svolgono tale funzione, cosicché l'atto da loro posto in essere non è espressione di una funzione dichiarativa o attestativa della volontà dell'Amministrazione; tuttavia, qualora tale certificazione venga compiuta da soggetti ai quali la medesima abbia esplicitamente affidato la funzione di attestare l'orario di lavoro dei dipendenti, un'eventuale falsa attestazione concreta il reato di falso ideologico in atto pubblico, sia per la qualifica del soggetto che lo ha posto in essere, sia per la sua natura di atto pubblico. Nella specie, si trattava dei capi-
La pronuncia si pone sulla scia dell'orientamento sul punto emerso in sede di Sezioni Unite, chiamate a dirimere il contrasto tra le sezioni semplici in ordine all'esatta qualificazione da assegnare a tali supporti.
Laddove un primo filone giurisprudenziale assegnava ad essi la qualificazione di atti pubblici, un secondo orientamento si collocava in posizione opposta, affermando che ad esito della privatizzazione del pubblico impiego, i fogli di presenza non possono essere considerati atti pubblici, limitandosi a documentare tipologie di atti valevoli soltanto ai fini della retribuzione o del regolare svolgimento della prestazione di lavoro.
Le Sezioni Unite (sent. 11 aprile 2006 -
Come noto, il reato qui ricorrente è quello previsto dall'art. 483 c.p., primo comma, che reca: "Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni". Soggiace invece alla pena stabilita dall'art. 476 c.p. (reclusione da uno a sei anni) "il pubblico ufficiale che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazione da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità" (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici).
Vi e' di più. La Suprema corte ha condannato gli interessati anche per il reato di tentata truffa aggravata, ritenendo sussistenti, a livello di tentativo, gli elementi costitutivi di tale fattispecie e cioè: gli artifizi o raggiri, l'induzione in errore, l'atto di disposizione patrimoniale, l'ingiusto profitto costituito dal poter beneficiare di una libera movimentazione all'interno dell'ufficio senza che a ciò corrisponda una formale registrazione, nonché da ultimo il danno per l'amministrazione dell'ingiustificata assenza dal luogo di lavoro.
Si rammenta che la sanzione per la truffa aggravata (art. 640, comma 2, n. 1 c.p.) è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 309,00 ad euro 1549,00: nella specie, scatta la riduzione da un terzo a due terzi prevista per il tentativo dall'art. 56, comma 2 c.p..
Avvocato Aldo Areddu
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